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Dott. Danilo Centrella | Specialista in Urologia e Andrologia

Patologie

Malattie benigne delle vie urinarie

 

 

La malattia del giunto pielo ureterale

 

La malattia del giunto pieloureterale è tradizionalmente considerata un’ostruzione dell’uretere prossimale (quello più vicino al rene). Il rene convoglia le urine nella pelvi renale, una piccola ampolla di tessuto uroteliale (con cellule di rivestimento uguali a quelle che si trovano nell’uretere e nella vescica) a cui a sua volta si collega l’uretere. Un’ostruzione a livello della giunzione tra questi due organi causa una difficoltà nella progressione dell’urina e di conseguenza un suo ristagno nella cavità pielica. La causa di questa patologia è ancora oggi oggetto di studio. Le varie ipotesi formulate nel tempo sono: la possibile assenza della muscolatura propria dell’uretere, sostituita da strutture fibrose o da tessuti muscolari longitudinali che non permettono la corretta formazione dell’onda peristaltica che consente a sua volta all’urina di progredire all’interno dell’uretere fino in vescica; la presenza di valvole all’interno della mucosa ureterale; la presenza di briglie aderenziali all’esterno della pelvi renale; la presenza di vasi anomali che potrebbero creare un’ostruzione ab-estrinseco (cioè per pressione dall’esterno) a livello della giunzione tra la pelvi e l’uretere. Questa patologia può essere congenita o acquisita. Tradizionalmente si presentava come una massa palpabile al fianco causata dall’elevata quantità di urine presenti nella pelvi renale (idronefrosi), in grado di danneggiare irreversibilmente, nel lungo periodo, la funzione renale. Con il progredire delle capacità diagnostiche, la malattia congenita viene spesso identificata già in epoca prenatale e il suo trattamento è molto precoce. È possibile tuttavia che la patologia si presenti clinicamente in un’epoca più tardiva. I sintomi di presentazione sono: ricorrenti dolori al fianco, tipo colica renale, associati o meno a nausea e vomito, eventuale aumento della creatininemia e dell’azotemia, ematuria o microematuria, piuria e, talvolta, episodi di pielonefrite (infezione del rene) ricorrente.

La soluzione chirurgica della patologia è indicata in caso di dolori ricorrenti, riduzione della funzionalità renale, calcolosi renale ricorrente. Le controindicazioni principali sono deficit coagulativi, infezioni non eradicate (che cioè non vengono eliminate) e patologie cardiopolmonari che non consentano al Paziente di affrontare l’intervento. Esistono moltissimi approcci per il trattamento della malattia del giunto pieloureterale che variano dall’endoscopia, alla chirurgia a cielo aperto, alla chirurgia laparoscopica. La laparoscopia, che vanta 20 anni di esperienza nel trattamento di questa patologia (la prima pieloplastica laparoscopica è stata eseguita da Schuessler nel 1993), ha una percentuale di successo che raggiunge la pieloplastica open (maggiore del 90%) e contemporaneamente riduce la morbilità dell’intervento, consente una minor ospedalizzazione e una convalescenza più veloce, affiancata a risultati estetici ottimi. Esistono fondamentalmente tre diversi approcci alla pieloplastica laparoscopica: trans-peritoneale (il più utilizzato), trans-mesenterico e retroperitoneale. Prima di iniziare l’intervento chirurgico viene eseguita una cistoscopia (si tratta dell’endoscopia della vescica attraverso l’uretra) e un’ureteropielografia (indagine radiologica con mezzo di contrasto che permette la visualizzazione di uretere e pelvi renale e conseguentemente individua la stenosi). Viene poi lasciato in sede uno stent ureterale (un tubicino solitamente in silicone medico che serve da vero e proprio tutore ureterale), rimosso dopo l’intervento. A questo punto si creano le brecce (piccoli tagli sulla parete addominale), attraverso cui inserire gli strumenti chirurgici e la telecamera. A seconda della conformazione anatomica e della difficoltà intraoperatoria vengono utilizzati da 3 a 5 accessi, il principale quasi sempre a livello dell’ombelico in modo da mascherare la cicatrice e avere un accesso diretto allo spazio peritoneale. Il Chirurgo isola quindi l’uretere e i vasi della pelvi renale e cerca di individuare la causa dell’ostruzione. Identificato il tratto stenotico, questo viene resecato e l’uretere, una volta “spatolato” (cioè messo a piatto per una piccola porzione), viene anastomizzato (cioè collegato) alla pelvi renale. Viene lasciato in sede uno stent ureterale che consente all’urina di defluire dalla pelvi alla vescica, senza intaccare eccessivamente le suture sulla via escretrice. Verrà rimosso poi nelle settimane successive all’intervento con una cistoscopia ambulatoriale. I giorni di degenza dopo l’operazione variano da 2 a 4; il catetere vescicale viene rimosso il primo o il secondo giorno dopo l’intervento.

 

Il  rene ptosico

 

La ptosi renale è una patologia abbastanza rara: consiste nello spostamento del rene verso la pelvi (cioè più in basso) di una distanza superiore a due vertebre. Le Pazienti sono di solito giovani donne alte e magre. Si tratta di una patologia acquisita e si differenzia dall’ectopia renale pelvica (cioè il rene spostato in un’altra sede anatomica, più spesso quella pelvica) per la presenza di una normale vascolarizzazione (infatti il peduncolo vascolare nel rene ptosico si trova in posizione normale sull’aorta e sulla vena cava, a differenza del peduncolo vascolare del rene ectopico che si posiziona in una zona vascolare diversa). La sintomatologia che si associa al rene ptosico comprende dolore al fianco tipo colica, nausea e vomito e soprattutto infezioni ricorrenti. Anche per questa patologia l’approccio laparoscopico, con l’utilizzo di 3/4 accessi, è il più consigliato. La tecnica consiste nell’esposizione completa del rene al di fuori della fascia di Gerota (cioè il complesso che fascia i reni) e della fissazione della capsula renale, con una retina simile a quella utilizzata per la correzione delle ernie inguinali, alle fasce muscolari e al peritoneo parietale. Secondo un recente studio, il 91% dei Pazienti sottoposti a questo intervento hanno mostrato una riduzione della sintomatologia dolorosa nel lungo periodo. La degenza media è di 3-5 giorni.

  

Le cisti renali

 

 Le cisti renali semplici sono formazioni cistiche renali a contenuto sieroso - le cause sono ancora sconosciute - che si possono presentare a tutte le età, presenti nel 50% dei reni delle persone con più di 60 anni. Di norma queste formazioni sono totalmente asintomatiche e, in ragione della loro totale benignità, non necessitano di alcun trattamento. È possibile però che alcune, o per la loro posizione o per la loro dimensione, siano causa di una sintomatologia che può variare dal dolore lombare gravativo, alla colica renale, all’ematuria, all’ipertensione. In questo caso il trattamento della cisti è necessario. La puntura percutanea della cisti, impiegata in passato, è tuttavia gravata da un’alta percentuale di recidive, anche se associata all’iniezione di sclerosanti. È quindi possibile utilizzare la laparoscopia anche nel trattamento di queste cisti: si può praticare una marsupializzazione, che consiste nell’asportazione della parete della cisti e nell’aspirazione del liquido. Usualmente si utilizzano tre accessi e la degenza post operatoria varia dai 2 ai 4 giorni.

 

Il linfocele pelvico

 

La prostatectomia radicale retropubica, eseguita per via retroperitoneale, è spesso associata alla linfadenectomia pelvica, che ha lo scopo di stadiare (cioè verificarne l’estensione) al meglio la malattia e rimuovere le stazioni linfonodali che drenano la prostata, eliminando gli eventuali linfonodi malati. La linfadenectomia iliaco-otturatoria può però causare una complicanza: il linfocele pelvico (il linfocele è costituito dalla raccolta di liquido in una cavità di nuova formazione). Durante la linfadenectomia i vasi linfatici vengono suturati; alcuni di essi però rimangono aperti, o perché troppo piccoli per esser individuati dal Chirurgo o perché vengono utilizzate delle tecniche meno accurate nella sutura. Di conseguenza nel periodo successivo all’intervento la linfa si accumula intorno ai vasi iliaci e crea delle raccolte; se queste non danno sintomi possono tranquillamente essere lasciate in sede. Possono però dare aumento di dimensione dell’arto inferiore (linfedema) od ostruzione della componente vascolare venosa o anticipare la sovrapposizione di infezioni. In questo caso devono essere trattate. La puntura percutanea e il drenaggio delle stesse raccolte sono gravati da un elevato numero di recidive. Anche in questa patologia la laparoscopia può essere utile, consentendo di marsupializzare la raccolta (eliminare la parete della raccolta stessa) attraverso un approccio chirurgico mininvasivo con pochi giorni di degenza e una pronta ripresa funzionale. Sono utilizzati tre accessi, di cui uno periombelicale.

 

Incontinenza urinaria: Colposospensione o colposacropessia

 

Vescica e uretra devono essere considerate un’unità morfo funzionale. Nella donna l’uretra risulta decisamente più corta rispetto a quella dell’uomo e il meccanismo della continenza è intrinsecamente legato alla funzionalità del pavimento pelvico. In seguito a danni legati al parto naturale o a un meccanismo parafisiologico (perdita di elasticità tissutale in seguito alla menopausa), è frequente che la donna presenti un certo grado di incontinenza nella seconda parte della sua vita adulta. È possibile che questo sia dovuto a una semplice perdita di funzionalità del pavimento pelvico, per cui l’uretra, non più sostenuta, tende a “scivolare verso il basso” e a perdere il meccanismo di continenza o che la perdita di funzionalità del pavimento pelvico si associ a prolasso della vescica sulla parete anteriore della vagina o a un prolasso pelvico completo. Gli approcci chirurgici che prevedevano la sospensione dell’uretra e della vescica sono stati sviluppati a partire dal 1949 da Marshall, Marchetti e Krantz con la sospensione della fascia periuretrale alla faccia posteriore della sinfisi pubica (l’articolazione che collega le due ossa dell’anca). Burch ha sviluppato una tecnica modificata che prevede l’ancoraggio al legamento di Cooper, utilizzando il tessuto vaginale come ancoraggio per la fascia periuretrale. Questa tecnica, modificata in alcuni aspetti tecnici, viene utilizzata ed eseguita per via laparoscopica, permettendo un approccio mininvasivo con tutti i vantaggi della laparoscopia. Per quanto riguarda invece i prolassi maggiori è possibile praticare la colposacropessia, cioè la sospensione dell’uretra e della parete vaginale anteriore e posteriore alla faccia anteriore del sacro, eliminando o riducendo il prolasso vaginale e i sintomi urinari e sessuali che lo accompagnano.